“Again and Again and Again…I need you baby“,
canticchio questo evergreen dalla dubbia fama mentre mi preparo per il milionesimo match: ebbene si, Mimmuzza ancora una volta si sta appropinquando per un nuovo colloquio.
Mi hanno chiamato dall’ufficio delle Risorse Umane della famosa, ennesima, agenzia di comunicazione; dopo pochi minuti dalla mia email di candidatura.
“Saremmo vivamente interessati nel vederla signorina Mimmuzza”
“A che ora, dove e quando”, ribatto io in modo automatico. E’ un’assuefazione totale ormai. Non mi emozionano più quelle parole importanti e piene di speranza.
Nei soliti, automatici, preparativi rifletto su come in fondo io possa essere definita come una vera e propria ADDECTED.
Sono dipendente da colloqui, non dalla ricerca del lavoro; dai colloqui stessi.
Non so se definirla come una forma di masochismo nel sentirmi proporre sempre le stesse inenarrabili storie.
Stage non retribuito, collaborazione no profit, progetto per giovani, start up, budget zero…qua qua qua.
Sarà che mi diverto nel sapere che tanto, qualunque cosa io dica, faccia o proponga finirà sempre con un “Per ora non ci chieda soldi perché sa, la crisi”.
Mi guardo allo specchio e senza mezzi termini mi auto definisco una FiGA STELLARE,
“Sta botta se non ottengo un lavoro almeno un invito a cena come premio di consolazione lo dovrei riuscire ad avere“.
La verità è che scegliere i vestiti e lo stile da adottare per un colloquio non è mai semplice perché:
– Potresti vestire da super femme fatale nella speranza che ad aspettarti ci sia un uomo
– Potresti vestirti bene, ma con qualche piccolo difetto, nel caso ci sia una donna
Io questa volta mi sento fatalista e decido per il destino; ripetendomi in testa che ci sarà un bell’uomo al mio imminente colloquio.
Me lo continuo a ripetere anche quando dietro l’angolo della via tolgo le converse verdi ed infilo dei tacchi 12 blu, sotto il vestito in tinta che arriva fino al ginocchio. Non smetto di ripetermelo ancora quando mi trucco specchiandomi nella vetrata della banca con la guardia di turno che mi guarda e ride sotto i baffi. Me lo ripeto per l’ultima volta quando suono al citofono e mi apre un uomo (dalla dubbia prestanza fisica) che mi accompagna in una sala riunioni dove in modo composto mi accomodo in attesa del mio interlocutore. Smetto di ripetermelo però quando sento, dalla scala a chioccia retrostante, scendere dei tacchi ancora più alti e belli dei miei.
“Ho toppato alla grande” digrigno, mentre in fretta e furia mi sbottono la giacca e la butto all’indietro sulla sedia in cui sono ora seduta in modo più scomposto.
Faccio questo gesto perché almeno lei quando entrerà vedrà che sono vestita in modo appropriato, ma con un qualcosa di stonante che le farà vincere l’infinita, implicita e sempre accesa lotta tra donne.
Il colloquio inizia e va come sempre:
– Parlami di te
– Parlo di noi
– Vorremmo, potremmo, sarebbe possibile
Durante la mia presentazione lei, come spesso accade, prende appunti sul mio curriculum stampato, che so già a breve avrà sopra una scritta; una parola in codice che gli altri colleghi sanno e capiscono. Le parole in questione possono essere le più varie e sono quelle, anche solo una ne può bastare, a segnare il destino del candidato in questione.
Le più comuni sono: CAGNA CIAO SI TRA SEI MESI NO
Quando siamo al momento della resa dei conti, sento per l’ennesima volta pronunciare la frase che più odio al mondo:
“Noi per il momento proponiamo uno stage gratuito, che passa ad un fisso di 200 euro dopo due mesi che poi dopo 6 si può trasformare in qualcosa di più sostanzioso che ti porterà infine, se sei valida e ci troviamo bene, ad essere integrata in modo più corposo nel nostro organico”.
Faccio un lungo respiro. La ragazza che ho di fronte è simpatica e carina e per questo non mi va di mangiarla.
“Non sono interessata, mi dispiace. Inoltre avevo specificato la mia necessità di guadagno, soprattutto perché sono diversi mesi che esiste una legge per cui gli stage, in modo obbligatorio, devono essere retribuiti”.
Lei è rivolta verso il basso; con la testa china ha lo sguardo che oltrepassa il triangolo che formano le sue braccia legate in fondo dalle mani intrecciate e poggiate sul tavolo. Anche lei prende un lungo respiro, poi alza la testa e mi fissa negli occhi.
“Senti Michaela mi dispiace. Mi dispiace perché so che ti sei fatta mezza Roma per venire qui. Mi dispiace soprattutto perché sapevo la tua richiesta e necessità, solo che te lo devo dire; sono stata io ad insistere nel voler incontrarti. Il tuo curriculum è pazzesco, sei giovanissima ed in più ora che ti ho conosciuto sono ancor più certa di quanto una come te possa essere ottima, se non indispensabile nel nostro team”.
“Bene, allora se sono così indispensabile mi potreste anche pagare per lavorare. No pay no play diceva qualcuno”.
Sono stata dura, lo so. Ma le belle sciorinate ormai non hanno più lo stesso fascino su di me. Io sono una tossica di colloqui, di delusioni e di belle frasi che significano solo ed esclusivamente “O mangi questa minestra, o ti butti dalla finestra”.
“Lo so” – controbatte lei – “Sono pienamente d’accordo con te. Io ho trentacinque anni e questo è il primo lavoro serio che ho. Conosco perfettamente lo strazio che possono dare le parole Stage non retribuito. Ma io sono un ambasciatore e non porto pena. Se però posso dirtelo in confidenza sono pienamente d’accordo con te. E’ un mondo di merda”.
E’ la prima volta che mi succede.
Siamo io ed un’ipotetica me del futuro, sedute una vicina all’altra che con le mani incrociate che ci guardiamo in silenzio. “Non sono la sola e non lo sarò mai“.
“Almeno ci siamo conosciute; è comunque una cosa positiva, no?”
“Si, hai ragione Mimmuzza”. Incredibile, sono io alla fine a consolare lei.
Siamo sull’uscio dell’ufficio dove lei mi ha accompagnato, scambiandoci qualche battute sui bellissimi e super funzionanti mezzi di trasporto romani.
“Ma alla fine dove devi tornare adesso?”
“A centoncelle”
“Oh mamma, ma ci metterai una vita. Con quei tacchi poi.”
“No, ma ho un piccolo segreto per le scarpe”
“Beh certo, le tue converse verdi giusto?”
Resto paralizzata. Dò un fugace sguardo alla mia borsa, ma nessuna delle mie due scarpe sta facendo capolinea.
“Scusa, ma te come lo sai?”
“Te sei Mimmuzza giusto? Diariodiunaprecaria è tuo no? L’ho capito da quello che mi hai raccontato prima. Io ti seguo”………
Fluttuo in una coppa di champagne dove versano un liquido al profumo di autostima, tritano del ghiaccio color gioia ed aggiungono infine una ciliegina dal nome speranza.