Colloquio in Agrodolce

un colloquio agrodolce

 

Again and Again and Again…I need you baby“,

canticchio questo evergreen dalla dubbia fama mentre mi preparo per il milionesimo match: ebbene si, Mimmuzza ancora una volta si sta appropinquando per un nuovo colloquio.

Mi hanno chiamato dall’ufficio delle Risorse Umane della famosa, ennesima, agenzia di comunicazione; dopo pochi minuti dalla mia email di candidatura.

“Saremmo vivamente interessati nel vederla signorina Mimmuzza”

“A che ora, dove e quando”, ribatto io in modo automatico. E’ un’assuefazione totale ormai. Non mi emozionano più quelle parole importanti e piene di speranza.

Nei soliti, automatici, preparativi rifletto su come in fondo io possa essere definita come una vera e propria ADDECTED.

Sono dipendente da colloqui, non dalla ricerca del lavoro; dai colloqui stessi.

Non so se definirla come una forma di masochismo nel sentirmi proporre sempre le stesse inenarrabili storie.

Stage non retribuito, collaborazione no profit, progetto per giovani, start up, budget zero…qua qua qua.

Sarà che mi diverto nel sapere che tanto, qualunque cosa io dica, faccia o proponga finirà sempre con un “Per ora non ci chieda soldi perché sa, la crisi”.

Mi guardo allo specchio e senza mezzi termini mi auto definisco una FiGA STELLARE,

Sta botta se non ottengo un lavoro almeno un invito a cena come premio di consolazione lo dovrei riuscire ad avere“.

La verità è che scegliere i vestiti e lo stile da adottare per un colloquio non è mai semplice perché:

– Potresti vestire da super femme fatale nella speranza che ad aspettarti ci sia un uomo

– Potresti vestirti bene, ma con qualche piccolo difetto, nel caso ci sia una donna

Io questa volta mi sento fatalista e decido per il destino; ripetendomi in testa che ci sarà un bell’uomo al mio imminente colloquio.

Me lo continuo a ripetere anche quando dietro l’angolo della via tolgo le converse verdi ed infilo dei tacchi 12 blu, sotto il vestito in tinta che arriva fino al ginocchio.                                Non smetto di ripetermelo ancora quando mi trucco specchiandomi nella vetrata della  banca con la guardia di turno che mi guarda e ride sotto i baffi.                                                         Me lo ripeto per l’ultima volta quando suono al citofono e mi apre un uomo (dalla dubbia     prestanza fisica) che mi accompagna in una sala riunioni dove in modo composto mi             accomodo in attesa del mio interlocutore.                                                                                                    Smetto di ripetermelo però quando sento, dalla scala a chioccia retrostante,  scendere dei tacchi ancora più alti e belli dei miei.

Ho toppato alla grande” digrigno, mentre in fretta e furia mi sbottono la giacca e la butto all’indietro sulla sedia in cui sono ora seduta in modo più scomposto.

Faccio questo gesto perché almeno lei quando entrerà vedrà che sono vestita in modo appropriato, ma con un qualcosa di stonante che le farà vincere l’infinita, implicita e sempre accesa lotta tra donne.

Il colloquio inizia e va come sempre:

– Parlami di te

– Parlo di noi

– Vorremmo, potremmo, sarebbe possibile

Durante la mia presentazione lei, come spesso accade, prende appunti sul mio curriculum stampato, che so già a breve avrà sopra una scritta; una parola in codice che gli altri colleghi sanno e capiscono. Le parole in questione possono essere le più varie e sono quelle, anche solo una ne può bastare, a segnare il destino del candidato in questione.

Le più comuni sono:        CAGNA          CIAO                 SI                   TRA SEI MESI                   NO

Quando siamo al momento della resa dei conti, sento per l’ennesima volta pronunciare la frase che più odio al mondo:

“Noi per il momento proponiamo uno stage gratuito, che passa ad un fisso di 200 euro dopo due mesi che poi dopo 6 si può trasformare in qualcosa di più sostanzioso che ti porterà infine, se sei valida e ci troviamo bene, ad essere integrata in modo più corposo nel nostro organico”.

Faccio un lungo respiro. La ragazza che ho di fronte è simpatica e carina e per questo non mi va di mangiarla.

“Non sono interessata, mi dispiace. Inoltre avevo specificato la mia necessità di guadagno, soprattutto perché sono diversi mesi che esiste una legge per cui gli stage, in modo obbligatorio, devono essere retribuiti”.

Lei è rivolta verso il basso; con la testa china ha lo sguardo che oltrepassa il triangolo che formano le sue braccia legate in fondo dalle mani intrecciate e poggiate sul tavolo.       Anche lei prende un lungo respiro, poi alza la testa e mi fissa negli occhi.

“Senti Michaela mi dispiace. Mi dispiace perché so che ti sei fatta mezza Roma per venire qui. Mi dispiace soprattutto perché sapevo la tua richiesta e necessità, solo che te lo devo dire; sono stata io ad insistere nel voler  incontrarti. Il tuo curriculum è pazzesco, sei giovanissima ed in più ora che ti ho conosciuto sono ancor più certa di quanto una come te possa essere ottima, se non indispensabile nel nostro team”.

“Bene, allora se sono così indispensabile mi potreste anche pagare per lavorare. No pay no play diceva qualcuno”.

Sono stata dura, lo so. Ma le belle sciorinate ormai non hanno più lo stesso fascino su di me. Io sono una tossica di colloqui, di delusioni e di belle frasi che significano solo ed esclusivamente “O mangi questa minestra, o ti butti dalla finestra”.

“Lo so” – controbatte lei – “Sono pienamente d’accordo con te. Io ho trentacinque anni e questo è il primo lavoro serio che ho. Conosco perfettamente lo strazio che possono dare le parole Stage non retribuito. Ma io sono un ambasciatore e non porto pena. Se però posso dirtelo in confidenza sono pienamente d’accordo con te. E’ un mondo di merda”.

E’ la prima volta che mi succede.

Siamo io ed un’ipotetica me del futuro, sedute una vicina all’altra che con le mani incrociate che ci guardiamo in silenzio.  “Non sono la sola e non lo sarò mai“.

“Almeno ci siamo conosciute;  è comunque una cosa positiva, no?”

“Si, hai ragione Mimmuzza”. Incredibile, sono io alla fine a consolare lei.

Siamo sull’uscio dell’ufficio dove lei mi ha accompagnato, scambiandoci qualche battute sui bellissimi e super funzionanti mezzi di trasporto romani.

“Ma alla fine dove devi tornare adesso?”

“A centoncelle”

“Oh mamma, ma ci metterai una vita. Con quei tacchi poi.”

“No, ma ho un piccolo segreto per le scarpe”

“Beh certo, le tue converse verdi giusto?”

Resto paralizzata. Dò un fugace sguardo alla mia borsa, ma nessuna delle mie due scarpe sta facendo capolinea.

“Scusa, ma te come lo sai?”

“Te sei Mimmuzza giusto? Diariodiunaprecaria è tuo no? L’ho capito da quello che mi hai raccontato prima. Io ti seguo”………

Fluttuo in una coppa di champagne dove versano un liquido al profumo di autostima, tritano del ghiaccio color gioia ed aggiungono infine una ciliegina dal nome speranza.

 

La Maledizione degli Anfibi precari.

Testimonianza di come la Precarietà sia uno stile vita ed uno stato mentale.
Testimonianza di come la Precarietà sia uno stile vita ed uno stato mentale.

 

Durante il decorso di ogni anno vengono pubblicati degli elenchi con le maggiori piaghe che affliggono il genere umano.

Nella mia personale lista dopo la Fame nel Mondo, la Carestia e Barbara D’Urso al quarto posto io metto senza ombra di dubbio la maledizione degli anfibi.

“Cosa intendi con maledizione degli Anfibi Mimmuzza?”, mi chiede di solito il povero ascoltatore delle mie fumose e poco pratiche teorie/principi.

Gli anfibi, gli stivali, i bikers. Chiamali come ti pare ma per me sono maledetti, o per lo meno i miei lo sono per certo

Si ma perché?

Per rispondere alla domanda del  povero amico che sorbisce ogni sera le mie folli teorie e supposizioni sull’esistenza devo fare un piccolo preambolo.

Si dice spesso che il nostro aspetto estetico, il modo di vestirci ed atteggiarci in senso di apparenza possa o celare il nostro vero Io o palesarlo senza indugi.

Aggressività, insicurezza, sensualità, decisione, allegria: ognuno può inviare diversi messaggi con il look di appartenenza. Io con il mio; nella fattispecie con i mie stivali, tanto per cambiare, trasmetto Precarietà. Precarietà da ogni poro anzi.

Li ho comprati alti, bassi alla caviglia, con il tacco a spillo, senza tacco, con la gomma sotto, con la gomma sopra. Con la zip, il cinturino, ad infilare. Neri, marroni, beige, grigi. Ne ho comprati di ogni tipo ed ammetto mai esageratamente costosi, però allo stesso tempo nella media del mercato generale.

Nonostante tutti i miei tentativi fino ad oggi non ne ho mai trovati un paio che non mi trucidassero la vita, che non punzecchiassero i miei nervi con estrema malignità“, concludo girandomi verso il mio amico.

Si ma PERCHE’? Che significa? Mimmuzza mi stai facendo venire un’ansia terribile. Che ti fanno gli stivali? Ti pisciano in casa?

Lo guardo composta e ferma con lo sguardo fisso,  fino alla frase “Ti pisciano in casa” dove salto sul divano, atterro sulle ginocchia e stendo le braccia verso di lui.                         “Ma magariiiii! Ringrazierei chiunque mi facesse questo favore. Te forse non hai capito quanto può essere odioso quello che accade ogni sacro santa volta che li metto

Il mio amico si passa una mano tra i  capelli facendo un lungo sospiro.                                             “Ti prego, dimmi di cosa stai parlando.

E’ semplice: ogni volta che io li metto posso indossare quattro calzini di cui tre di spugna. Posso mettermi i pantaloni sopra agli stivali stessi, dei pantaloni non stretti; strettissimi. Posso stringere i lacci a sangue ma niente. Loro riescono sempre e comunque a vincere

Ma cosa? MALEDIZIONE MIMMA. Cosa cazzo ti fanno?

Tecnicamente poi non sono davvero loro; loro più che altro non si prendono cura di me. E poi la cosa bella è che mi succede solo con loro, se metto sandali o addirittura infradito, quello che mi succede con gli stivali non mi accadrà mai.

Mentre continuo il mio delirio sul mondo delle calzature poggio lo sguardo nuovamente sul mio amico che adesso ha la faccia rivolta verso il basso e gli occhi alzati verso di me. E’ terrificante.

Ok, ok te lo dico. Sono i sassi, i sassetti ed i sassolini. Ti posso assicurare che mi sono fissata i piedi per mesi e mesi, ho cercato anche con una lente di ingrandimento quale e dove potesse essere un eventuale foro, ma niente. Quando indosso gli stivali, in qualsiasi modo o maniera; ogni cinque passi che compio riesco ad accumulare nel loro interno una cosa come un chilo di sassi a piede. Ma mi dici il perché secondo te?”

Lui, il mio amico; non risponde. Si limita a guardarmi, tra l’assente e lo sbalordito. Lo fa per circa quindici secondi per poi scoppiare in una fortissima risata, tenendosi la pancia e sgambettando come una starlette del Mouling Rouge.

Io lo ignoro e continuo a riflettere su questa maledizione che mi affligge da inizio Ottobre fino almeno a fine Aprile.

Questo dilemma me lo pongo con perentoria precisione ogni anno.

Mai una soluzione, mai una risposta mi è sopraggiunta.

Esco dal mio AnfibioComa e torno a guardare il mio amico che si asciuga le lacrime per le troppe risate.

Mi drizzo sulle gambe e mi metto composta. Intreccio e la mani e mi schiarisco la voce:

“Sai, questo tuo prendere poco sul serio il mio dilemma mi turba ma mia aiuta a capire allo stesso tempo? Insomma non potrebbe essere che l’Universo tenta ogni giorno di palesare ancor di più la mia precarietà? Non credi che quei sassi possano essere una Metafora di  tutti gli ostacoli che questo infame Mondo ogni giorno ci mette sulla strada? Mi sembra proprio un chiaro segnale. Eh si, ora tutto ha un senso. Ora ho davvero capito. Credo proprio che quei farabutti vogliano dire che per quanto io mi impegni a crearmi uno scudo, una fortezza i problemi riusciranno sempre ad entrare nella mia vita. E soprattutto che nonostante io faccia di tutto per liberarmene; come appoggiarmi ad un muro in mezzo alla strada e sfilarmi una scarpa in mezzo alla gente che mi guarda sbalordita, loro ricompariranno. E se non loro comunque dei nuovi problemi.”

La mia voce mano a mano si fa sempre più docile e fioca e questo attrae l’attenzione del mio amico che si fa lentamente serio. Lo guardo in viso e noto ogni singolo passaggio che fa mutare la sua espressione da un sorriso ad una bocca serrata, seria ed attenta.

Passa qualche secondo in cui rimaniamo entrambe in silenzio a guardarci.

Prendi il lato positivo di tutto questo Mimmuzza. Numero uno, sono solo gli anfibi a darti questo problema, quindi gli ostacoli si possono relegare ad una sola situazione. E poi lo hai detto te per prima, ti hanno fatto ingegnare a tal punto da essere diventata un’esperta di calzatura. Insomma non potrebbe essere che invece l’Universo ti stia inviando un altro tipo di messaggio?

Ah si? E quale sarebbe?

Il messaggio sarebbe che per quanto te possa fare; non solo per te ma per tutti, gli ostacoli e le difficoltà nella vita saranno sempre presenti. Ma sono proprio quei momenti di rabbia, dolore e depressione a farti ingegnare, a darti della grinta che sole, gioia e tante coccole non ti darebbero. Perché dovresti essere agguerrita se sapessi che la tua vita è tutta in discesa? In fondo sono i problemi e gli ostacoli a fare uscire il meglio di noi. O no?

…. O – NO ??

La bomba atomica la potrei fabbricare in casa..

psyco

Stavolta sono carica.

Ho parlato infinito tempo, ho analizzato e spulciato ogni minimo dettaglio e sfumatura del mondo del precariato e poi ho capito. Ho capito che arrendersi non è la soluzione; che piangersi addosso non serve a nulla e che stare a casa a guardare mille serie tv, ricoperta di patatine e briciole non farà arrivare un lavoro alla mia porta.

Che nessuno mi busserà ma che sono io a dover prendere a calci più e più porte.

Così mi rimetto all’opera. Dò una rinfrescata al mio Curriculum, mi faccio a tappeto tutti gli annunci di lavoro; carico il mio fucile con colpi composti da email, cv e lettere motivazionali da convincere anche il Papa ad assumermi.

Arrivo a mandare circa 15 candidature al giorno; tutte ben curate, pensate e spedite una per una con un bacio della fortuna. Della speranza.

Dopo circa due giorni cominciano a giungere svariate telefonate e con alcuni fisso dei colloqui, con altri mi limito a declinare proposte a dir poco indecenti. Non si può sperare che tutto sia come lo descrivono, come lo fanno apparire.

Poi arriva QUELLA telefonata, quella dell’annuncio per cui hai messo circa mezz’ora a scrivere la lettera motivazionale; quella per cui ricontrolli il Curriculum fino a farti sanguinare gli occhi.

Il nome dell’agenzia di comunicazione che mi chiama non lo dirò per riservatezza. Quello che posso dire però è che già solo il loro nome mi fa venire l’acquolina in bocca e che il loro modo di ispirarsi ad uno dei miei registi preferiti mi fa venire voglia di urlare al mondo che sono una gran figa!

Colloquio fissato.

Mi vesto da vincente; si, stavolta oso e metto le converse convinta di tenerle per tutto il tempo: I am what i am.

Arrivo in questa pericolosa strada a doppio senso che penso solo un cieco possa permettere di far trafficare  Atac, autoveicoli e pedoni nel raggio di quei 5 centimetri.

Il fato ha voluto che ancora una volta incontri sul mio tragitto dei teneri impiccioni che alla fine di tutto riescono a risultare sempre utili. C’è da dirlo; a volte quelli che origliano h 24 sono di grande aiuto, soprattutto quando ti avvicini alla conducente dell’autobus e chiedi qual’è la fermata più vicina alla via dove devi andare. Lei scoppiando il chewingum ti risponde “Ah signorì io faccio ‘sta tratta da tipo quindici anni, ma la strada che me dici te nun l’ho mai sentita. Mo ce provamo però. Che te devo da dì?”

Ed è proprio nel momento in cui te sei ancora spiaccicata al vetro, che ringraziando Dio vi separa, che si avvicina l’impiccione (solitamente ha un abbigliamento da sfigato e dei capelli oliati. Forse è lo stato ad imporgli questa sorta di divisa per essere facilmente riconoscibile) che ti dice “Signorina non si preoccupi, la fermata che cerca è quella prima della mia. Gliela indico io”.

Una volta scesa dall’auto mi ritrovo dunque in questa strada praticamente impossibile da attraversare;  non so davvero come, ma riesco ad oltrepassare la linea della morte e mi inoltro nella via quasi di campagna dove incrocio subito il civico indicatomi il giorno prima per telefono.

Sono agitata e nonostante sia un freddo bestiale mi sudano le mani. Prima di citofonare le strofino sui pantaloni e mi lascio un alone sulle cosce “Bene, adesso penseranno che mi piscio sotto o che non mi so lavare i panni. Sono una demente”.

Nonostante io sembri appena uscita da una comunità di nomadi decido di suonare.

Mi accoglie un uomo sulla quarantina molto fascinoso e mi sento subito a mio agio; insomma nonostante tutto è comunque un bel vedere e ci sto già nettamente guadagnando.

Entro nello studio davvero accogliente: lavagne piene di disegni, murales, tappeti persiani, divani rossi e scritte che citano il grande film da cui prende il nome l’agenzia.

Sembro una bambina in un negozio di giocattoli; proprio per questo vedo che anche lui sente subito una fantastica empatia tra di noi.

Mi racconta la sua storia; non c’è che dire, un uomo che si è fatto da solo. Sa cosa significhi farsi il culo.

Gli racconto la mia ed annuisce e sorride. Sa di cosa sto parlando. “Condividiamo lo stesso mondo fratello. Yo.

“Mimmuzza per me, se vuoi cominciare domani puoi. Sei quella che cercavamo”

“Davvero? Ottimo? Ma come Account Executive quali sono le competenze che vuoi che sviluppi per prime?”

“Ti spiego. Qui ci sono già altri Account e come loro anche te comincerai portandoci tanti clienti. Per siti, eventi, brochure, tutto quello che ti viene in mente; tutti quelli che ti vengono in mente che possono necessitare dei nostri servizi”.

Il tipo si alza e continuare a parlare, ma io mi sono già lontana e distratta. “Questo a casa mia non è fare l’Account ma una sotto specie di procacciatrice, pr.

Ma non mollo, in fondo chi sono io per dire cosa è cosa? In silenzio sorrido e continuo ad ascoltare il figo quarantenne.

“Parliamo adesso dei profitti. So per certo che hai bisogno di guadagnare e guarda nessuno più di me ti può capire. Appena ho aperto questo posto ho giurato a me stesso che non avrei mai sotto pagato nessuno e soprattutto che avrei sempre motivato i miei dipendenti.”

Mi sento di volare, aleggio nel mondo della gioia lavorativa; ci fluttuo dentro e bevo un cocktail fatto di soddisfazione e tranquillità. Sto cavalcando la vittoria.

“Quindi ti spiego velocemente come funziona. Su ogni lavoro effettuato grazie ad un tuo contatto avrai logicamente una provvigione. Oltre quella avrai un fisso mensile; mi sembra il minimo. Il fisso varia in base al tuo lavoro: se ci fai guadagnare 5.000 euro al mese ti dò 200 euro, per 10.000 euro te ne dò 400. Se arriviamo a 20.000 ti dò 600 euro e poi le chiavi dell’ufficio. Perché saresti davvero un mito”

Mi sta dando le spalle in questo momento il figo stronzo. Percepisco che sta osservando la lavagna con il suo schemino con i vari guadagni soddisfatto. Si sente un buono, un generoso si sente la merda.

Io invece, sono rabbiosa e mi sento presa per il culo.

C’è gente che per 600 euro al mese lavora tutto il giorno, tutti i giorni e se gli va bene non sta immerso nella merda o in qualcosa del genere. E te mi vieni a dire che io la mattina mi devo alzare ed andare in giro a cercare qualcuno a cui chiedere se mi vuole dare 5.000 euro per fare cosa? Per fare degli eventi? Del buon dj set o uno spaziale sito internet?

Amico svegliati siamo nel 2014: se volessi inventare la bomba atomica in casa, mi basterebbero circa venti minuti di navigazione su Internet e due video su Youtube.

Pessimismo Cosmico

Il Pessimismo più antico del mondo

La disperazione arriva nel momento in cui ti rendi conto che i giorni sono tutti uguali.

Sono insapore, inodore e peggio di tutto sono indolore.

E’ come un treno invisibile che ogni dì fa la sua tratta avanti indietro con capolinea la tua testa ed i tuoi piedi. Su e giu, quel bastardo se ne va, vuoto e malandato con pochi passeggeri che poi si sà; il biglietto manco quei pochi lo timbrano.

Ed ecco che ti senti atterrata, appesantita da qualcosa di invisibile che non sai cos’è e proprio per questo non lo riesci ad afferrare e non riesci mai, e dico mai, a gettarlo via.

“Sei sempre lì mimmuzza, che ti lamenti di non trovare un lavoro.”

Io in realtà un lavoro l’ho trovato; perché solo chi cerca trova. Ed io ho cercato con tutta me stessa, ho scavato con le unghie rotte e sporche; con le mani stanche ho raschiato fino in fondo il pozzo dell’offerta del lavoro. E quando pensavo che i giochi fossero belli che chiusi l’ho trovato. “Un lavoretto”, come si usa dire; ne bene ne male. Un cazzo di comune lavoro che quando ti chiedono “Com’è? Come va?”, te non sai cosa rispondere se non  “E’ un lavoro e va“. Tutto qua. Fine.

I libri sono lì, intonsi ed impolverati; la mia mente si articola ormai solo in pochi pensieri tutti uguali e tutti banali. L’attestato di laurea non so dov’è e nemmeno lo voglio sapere. Anzi, non lo voglio proprio avere.

Allora ti chiedi: “Forse non hai cercato abbastanza? E’ il 2014 porca miseria e tutti sono pieni di speranza e te cosa ti sei limitata a fare?”

Mi sono limitata ad affannarmi a sognare il mio direttore che mi licenziava perché facevo suonare l’allarme, o perché perdevo una telefonata del centralino. Punto.

E poi dai la colpa al sistema, ad un passato troppo corposo per così pochi anni, all’Italia, alla politica, alla Democrazia Cristiana ed al ’68. “Avrei saputo cosa fare io negli anni ’60”. Eh si; ma non ti sono toccati bella.

Allora in quel momento ti cadono le braccia, pesanti ed arrese anche loro. Perché lo sai, dentro di te lo sai bene che l’errore lo stai facendo te “Culo Pesante”. Che non ti stai alzando dalla tua sedia girevole e non stai andando a scavare lì, dove non sei più entrata dal giorno dopo della tua laurea. Nello specchio di te stessa, dove devi cercare, percepire e captare le ombre e le sfumature delle tue vere volontà. Dove devi dare a te stessa il colpo di grazia e capire cosa realmente vuoi e come raggiungerlo. Perché poi una volta che l’hai individuato sai che non lo potrai più ignorare. Quel desiderio, il brio che tanto ti piaceva di te lo stai evitando. Perché sai che adesso è più maturo, più corposo e ti farà sputare sangue ancor più amaro.

C’è solo da alzarsi e continuare a cercare e tentare e provare. Perché solo chi cerca trovare.

E’ vero. E’ giusto.

Da domani lo faccio…promesso (con le dita incrociate dietro la schiena per sicurezza).

Il curioso caso di una precaria [ La sindrome di Benjamin Button esiste ]

 

ilcuriosocasodiunaprecaria

 

Eccomi qui; ancora una volta a farmi i conti in tasca. Ancora una volta a lottare con me stessa e con il Mondo.

Mi guardo allo specchio e mi chiedo cosa c’è che non va, come potrebbe andare meglio.

In fondo sono ancora giovane, ho ventidue anni. Oh porca troia ho ventidue anni!  Mamma mia me ne ero completamente scordata; sono una ragazzina!

Mi capita spesso di avere pensieri, movenze e preoccupazioni di una cinquantenne. A dire il vero mi capita così spesso che quando dico la mia età a nuove persone ne rimango quasi sempre più scioccata io che loro.

La mia arma di difesa prediletta quando simpatici sconosciuti mi fanno notare come io dimostri moooolti più anni di quelli che ho, (maledetti bastardi non potreste tenerlo per voi?) è quella di definirmi malata.

-“Malata di cosa?”

– “E’ una particolare forma della Sindrome di Benjamin Button”

Ed a questo punto, di solito, scatta la risata rumorosa. Di chi ha capito il collegamento al film e di chi non sa minimamente cosa sia e sdrammatizza ridendo; convinto che io abbia seriamente una qualche strana patologia.

La storia del mio dimostrare più anni sta tutta in poche e semplici spiegazioni:

– Sono molto alta e non si sa perché la gente è convinta che più sei alta e più sei adulta; manco fossi un albero

– So interagire ed affrontare argomenti che possono allontanarsi dallo smalto o l’ultimo concorrente del Grande Fratello (niente di troppo impegnativo o serio; lì mi limito ad annuire)

– Ho molte esperienze lavorative e collaborazioni nel mio Cv. Non temete, non sono una sotto specie di genio è che penso di avere un accenno di iperattività mista a una terribile fobia della monotonia. La tomba della psiche umana; o per lo meno della mia.

Dunque sin dal liceo mi sono destreggiata tra mille attività che potessero essere fare la speaker alla radio, ballare piuttosto che abbandonarmi ad impeti artistici che poi rimanevo sempre lì, incompleti e realmente brutti. Insomma, arrivata ai miei bei ventidue anni mi ritrovo una laurea, delle collaborazioni niente male e dei lavori precedenti durati anche più di un anno.

A questo punto starete tutti pensando: “E allora che rompi i coglioni con le tue storie da squattrinata?”

Il mio in realtà è un dramma sorto dopo un colloquio davvero particolare; l’ennesimo colloquio in cui avrei voluto picchiare quasi subito la mia interlocutrice.

Come sempre mando la mia candidatura senza alcuna speranza o forza positiva. Lo faccio perché quello rientra nella mia alienazione da disoccupata/precaria.

Una telefonata poco dopo dell’invio mi informa che con estremo piacere mi vogliono conoscere.

“E andiamo così” penso; “Mannaggia tutte le strade di Roma” mi correggo poi, dopo aver appurato la lontananza oceanica dei loro uffici. Niente paura, ne ho fatte di peggio, anche stavolta sarà facilissimo arrivarci e questa stavolta uscirò di lì trionfante.

Due giorni dopo, vestita da Mimmuzza; strano ma vero ho le converse ai piedi e so che potrò tenerle per tutto il tempo; mi faccio la mia bella ora e mezza di autobus e metro impregnandomi di quel tanfo che solo lì puoi trovare. “Devo comprarmi un profumo tascabile da mettere una volta uscita dai mezzi; puzzo di fogne e kebab”: questo il mio pensiero mentre percorro un lunghissimo viale che non so assolutamente dove mi porterà.

Attendo l’auto indicato nel percorso online e mi trovo vicino una ragazza della mia stessa età che sorride e parla al telefono. “Si mamma, sono pronta per il colloquio. Si mamma ho mandato la candidatura l’altro ieri e mi hanno chiamato subito.”

“Oh no, no, no. Una fregatura ancora una volta. Hanno chiamato in ufficio tre quarti di Roma questi bastardi maledetti. Devo essere felice se non mi apriranno con un kit per montare pentole e non menzioneranno la parola provvigione”.

Nel mentre che io mi demoralizzo mentalmente la ricciolona accanto a me riattacca il telefono;

Senti scusa la domanda; – comincio io imbarazzata – ma anche te fai il colloquio per questa rivista?”

Si ho appuntamento alle 10.45. Te per che ora?”

Io per le 10.30, ma l’auto ancora non passa

Non penso ce la farai

Sorrido. “Ti butto sotto l’auto mentre arriva, così io sarò in ritardo ma te non sarai proprio pervenuta”, penso mentre digito il numero che mi ha chiamato due giorni prima. Mi rassicurano che non ci sono problemi se ritardo. Le lancio uno sguardo di palese sfida e da lì non ci parliamo più. Ci ritroviamo sull’auto vicine, o per meglio dire compresse l’una sull’altra e ahimè mi ritrovo ancora una volta costretta a rivolgerle la parola “La fermata è la sesta giusto?

Io so che è la settima

Troia. Spocchiosa. Rivale…R-I-V-A-L-E- Distruggere. Il mio cervello sta andando in tilt ed io sono in ritardo.

La signora dietro di me, troppo piccola e compressa perché la riccia-rivale-da distruggere la possa sentire mi tira un lembo della giacca e mi dice “Signorina ha ragione lei, è la sesta. Deve scendere alla prossima

AH-AH-AH.

Comincio a spingere in modo sgarbato la gente che mi trovo davanti, tutti quegli stronzetti che intasano l’uscita; vedo la riccia palesemente frastornata. “Spero solo realizzi che la sto fregando un secondo dopo che si chiudono le porte”.

E invece se ne rende conto quando si aprono, ma la gente è tanta. La gente è maleducata. La gente è cattiva. Ed è così che rimane lì imprigionata; mentre io scendo, agile e veloce come una gazzella e con un occhio; a costo di diventare strabica, la guardo, perché voglio leggere la sua paura. Si; sono cattiva. Ed ammetto che a volte mi piace.

Ora basta con la crudeltà è arrivato il momento di tornare lucida e di correre perché sono in RITARDO.

Comincio a percorrere su e giu  questa via che sembra il set di un film di Fellini: una pompa di benzina deserta, un vecchio mercato rionale chiuso con diversi pacchi di plastica vuoti che rotolano trasportati dal laconico vento. Due anziani signori; probabilmente moglie e marito seduti su un muretto che osservano il banchetto da poco allestito. Stanno per certo vendendo le ultime cose rimastegli.

Torno a me e risalgo una bruttissima strada dalla quale entro in un palazzo dismesso. Sarà qui?

Chiamo di nuovo la responsabile del colloquio, passando ancora una volta come una ritardata (mai quanto lo sembrerà la ricciolona…eheheheh). Alla fine dell’ennesime epopea entro nell’ufficio e mi siedo per il colloquio.

Cominciano le domande: Come mai sei qui, come ci hai trovato, ci segui da molto, e bla bla bla.. Finchè non se ne esce dicendo:

Quale pensi sia il nostro target e cosa pensi sia il nostro messaggio principale?”

Ah già, prepararsi per il colloquio; ecco cosa mi ero dimenticata di fare ieri! Ero così presa dal fatto che dopo mesi qualcuno mi aveva cagato che mi sono completamente scordata di prepararmi per essere assunta.

Diciamo tra i 20 ed i 40 anni? Promuovendo arte, eventi ed informazione?

La ragazza rossa che ho davanti ci pensa un attimo e mi dice “Esatto!”

1-0 per me, palla al centro.

Allora adesso parlami un pò di te

Ed è qui che comincio con il mio sproloquio, mettendo ogni tanto qualche simpatico episodio, facendomi seria ed infilando qua e la termini specifici (english style); insomma mi svendo come meglio posso. Nel mentre che cerco di dare il meglio di me alzo gli occhi ed osservo la tipa rossa, si sta facendo seria e torva in volto. “Che cosa mi sta apparendo in faccia?” penso mentre cerco di concludere con un sorriso smagliante.

– “Scusami un attimo; ma te non sei del ’91?

– “Si perché?

Si siede dritta sulla sedia e tira un sospiro di disperazione;  “Senti io sono davvero dispiaciuta, ma avevo notato solo la tua età; non il tuo curriculum. Ti avevo chiamato perché pensavo ti servissero i crediti formativi per l’università. Certo che con questo curriculum, essendo addirittura già laureata lo stage non lo vorrai di certo fare.

Imbarazzata dal complimento/smerdamento rispondo ancora speranzosa “Ma dipende se è retribuito o no

No, no retribuiamo solo con i CFU universitari. Certo che con la tua esperienza vorresti entrare nell’organico ma sono sincera per la tua carica e per la tua formazione non saprei proprio dove metterti.

Sono scioccata, paralizzata. Cosa cazzo significa? Sono troppo? O mi stai ampiamente prendendo per il culo?

Va bene, – rispondo- almeno ci siamo conosciute. Allora vado?

Credo proprio di si. Comunque se ti posso dire, per come ti presenti e per il curriculum che hai alla tua età, sarà difficile trovare qualcosa. Io fossi in te nasconderei molte delle tue esperienze“.

La guardo disgustata, vorrei vomitarle addosso e poi appenderla alla finestra dell’ufficio, ma mi rendo conto che così esternerei e paleserei una psicopatia latente che ancora cerco di mascherare.

Nel mentre che esco; con la bile in gola, mi incrocio con la ricciolona che mi squadra e tutta trapelata dice alla rossa “Scusami per il ritardo, mi sono persa“.

Non ti sei persa bella bambolona, questi cercano proprio una come te. E te meriti esattamenteloro. By by baby.

Sò soddisfazioni importanti

Sò soddisfazioni importanti direi

http://www.italia24ore.it/20130921467/attualita/belen-e-stefano-finalmente-sposi.html

 

Tra la crisi, la rivoluzione la guerra. Tra gente che si odia, si ama, si lascia, nasce, muore, piange e ride…Ieri il mondo si è fermato perché questi due che si sono sposati.

Ci tengo a dire che ieri si è sposato anche mio cugino, eravamo tutti felici, la cerimonia è stata piccola e piane d’amore. E lì a nessuno fotteva di questi due, e l’unica cosa che c’era per riprendere il tutto era un telefonino e una telecamera.

Non ci sarà stata la Canalis o Alfonso Signorini; però quanto amore c’era…tanto!

Ah e no…mio cugino con la moglie non lo fanno il docu-film su come è stata la loro avventura pre-matrimonio..no direi proprio di no.

Co.Tra.L; Compagnie Trappole Laziali

 

lifeinaday
Ogni giorno è lo stesso giorno

 

La precarietà è originata dal Mondo in cui viviamo o il Mondo è divenuto precario perché abitato da noi?

Mi sto chiedendo questo mentre nel buio della notte (o della mattina?) attendo insieme ad altri venti zombies la famosa “Corriera”.

Ancora non riesco a credere che sono ormai sei mesi che faccio tutti i giorni questa cosa:

-Mi alzo alle 04.30

-Prendo il Cotral delle 05.30

– Arrivo a Tiburtina prendo la metro B fino a Termini

– A Termini prendo la metro A fino ad Anagnina

– Ad Anagnina prendo l’Atac fino alla Facoltà

– Mi sparo quelle leggere 4/5 ore di lezione in sudice aule con baffute colleghe di università

-Mi rimbarco per arrivare verso le 22.30 a casa, mangiare, cercare di cagare (perché il tram-tram non ti crea stanchezza..ma stitichezza) e poi a dormire, per quanto sia possibile riposare

Eppure eccomi qui; che ancora una volta sono imbacuccata come pochi, con lo zaino che odora di panino al salame,o di frittata, o di pollo. Ogni giorno con tutto l’arsenale della studentessa precaria sulle mie spalle, o per lo meno nella mia borsa finché qualcuno non tenta di rubarla.

Arriva lui, grosso e blu, che dall’esterno pare essere così imponente, così sicuro.

Entro e l’odore di Co.tra.l, indefinibile con altri aggettivi perché è solo lì che si sente, mi fa ripiombare ancora una volta nella depressione da pendolare “La vita fa quasi più schifo di un film muto sul crollo della Borsa”. Fortunatamente il posto lo trovo sempre dove voglio salendo dal capolinea; le mie tecniche nel passare degli anni sono variate, prima era quello singolo, poi quello doppio interno al corridoio e poi avevo ben deciso da qualche mese che quello doppio esterno fosse perfetto; perfetto per spiaccicare la faccia sul vetro mentre collasso.

A tal proposito ritengo opportuno specificare il fatto che credo abbiano visto le mie corde vocali più volte i passeggeri ed i controllori del Co.Tra.l che il mio dentista. Ebbene si, appena mi addormento spalanco le fauci e poi…chi vivrà, vedrà.

Questa mattina ho un sonno che mi fa quasi venire conati di vomito; di fuori è freddo così appena si entra “l’aria calda”, se la vogliamo far passare per tale, mi travolge come un caldo bacio appassionato. Avvampo subito, così decido di appisolarmi senza cappotto che appallottolo e poggio tra il vetro e la mia gamba.

Cuffiette, cartella musicale, play. Il buio, le mie fauci, un po’ di relax cullata dalle curve della Salaria.

Ogni tanto mi arriva qualche gomitata dalle mia vicina di posto che penso sia una stronza e non che magari le sto piano piano scivolando addosso. Poi un tonfo, una frenata brusca ed io che mi sveglio di soprassalto.

Fuori è ancora buio e noi siamo da poco entrati nella Salaria vecchia; in quel preciso punto che io definirei “La terra di nessuno”. Non ci sono stazioni di servizio, non ci sono lampioni, c’è solo la nebbia ed un fottutissimo auto regionale che si è fermato e che aggiunge il suo fumo alla foschia mattutina. Nemmeno il tempo di capire che ci cacciano dall’auto dicendo che è guasto.

“Oh porca puttana ladra” commento io finemente (appena sveglia sono ancora più greve di quanto lo sono di solito). Non so se la mia imprecazione è più per il fatto che non so come raggiungerò la mia quotidiana meta o perché…ho appena ripreso il mio giubbotto ed è-completamente-zuppo!

Ma signorina, lo sanno tutti che in queste trappole ci piove dentro; quei due signori laggiù, sono stati fino a qualche minuto fa con l’ombrello aperto per non bagnarsi“. Mi giro con gli occhi di Caronte, del Demonio, della bimba spettinata dell’Esorcista. Ringhio e basta fissandola e lei si dilegua. “Ti mangio in un sol boccone vecchia di merda con i capelli color carota”; me lo continuo a ripetere mentre strizzo la  giacca e come una pecorella smarrita seguo il gregge di altri pendolari che cominciano a camminare verso una salita alla sinistra della strada.

Troverò Virgilio, una lupa o semplicemente il proprietario della strada con un fucile in mano? E invece no, mi ritrovo ad una fermata di un povero, poverissimo treno che per fortuna passa dopo poco tempo. Nel viaggiare su dei sedili felicemente quasi umani, mi trovo comunque in una situazione sgradevole:

A- il mio giubbotto è completamente bagnato, è Novembre e fuori non solo piove ma faranno si e no 2 gradi

B- nel salire sul treno mi sono imbattuta in una vecchia – stronza – conoscenza che nonostante noti palesemente le mie occhiaie attacca un sermone allucinante su di lei, su di quanto è figa e bla bla bla bla

Non so come arriviamo a Tiburtina ed è proprio lì, che con somma gioia, mi rendo conto di aver lasciato l’ombrello sul Co.Tra.l

Oh cazzo! CAZZO! CAZZO! CAZZO!

Faccio finta di nulla, continuo imperterrita il mio viaggio verso Itaca; un po’ perché ci tengo a seguire le lezioni, e un po’ perché ormai è una sfida personale.

Alla fine arrivo non so come in facoltà e tento per l’intera giornata di essere invisibile e di celare il mio disagio esteriore che è solo un sunto di tutto quello interiore.

Stremata come non mai con quotidiana facilità raggiungo nuovamente Tiburtina. Che poi la facilità si traduce nello stare schiacciata tra altre duecento mila persone che sudano, che urlano e che disperdono al tuo fianco quella scoreggia che si trattenevano da tutto il giorno. Perché è così, i mezzi pubblici ci danno il permesso di essere pessimi, convinti di non guastare nulla di non già guastato.

Frastornata dalle arie altrui, arrivo al piazzale dell’auto e lo vedo che si allontana. E’ già partito ed io non ci voglio credere. Nei seguenti, infiniti, trenta minuti che seguono tremo dalla rabbia, dal freddo e dall’incredulità di quella giornata.

Una volta salita sulla maledetta trappola, mi faccio metà viaggio in piedi ancora una volta appiccicata ad altre persone. “Non ci sto credendo, questo è solo un incubo ed in quanto tale finirà presto”; è questo che penso mentre finalmente trovo posto a sedere. Quasi riesco a rilassarmi convinta di aver superato il giorno più brutto di tutta la mia vita.

D’altronde io cosa ne potevo sapere che di lì a qualche metro saremmo rimasti fermi per altre tre ore, causa incidente stradale?